IL MONTE PIZZONE & LA SUA LEGGENDA

  di ALFONSO RAVIELE

A vederlo dalla piazza della chiesa sembra una piramide egizia alta 750 m. s.l.m., costruita pietra su pietra da madre natura. Se lo guardi da lontano e magari da una montagna più alta, t'accorgi che il monte, sviluppatosi da Nord a Sud, si contorce leggermente verso Ovest, come nell'affettuoso sforzo di cingere in un abbraccio protettivo il borgo di Castello, aprendo un varco, in accordo con la Foresta e con Rotari, per consentire uno sfogo all'afa estiva e ai potenti venti invernali che spazzano la Valle.

D'inverno è venato qua e là di macule sempreverdi che offrono un motivo gaio al pallore delle rocce slavate dalle piogge o lambite da vaganti chiazze di nebbia.

La primavera, con il suo tocco poetico, riveste gli anfratti ed i rilievi di ciuffi d'anemoni, ginestre, elci e fieno là dove il terreno è meno brullo.

Un tempo era meta ferale di fienaiole che, cantando per alleviare la fatica e l'arsura, mietevano l'alta verzura, l'avvolgevano in un largo telo e la trasportavano lungo il fianco più agevole del monte, per poi stenderla al sole ad essiccare su marciapiedi e piazzole.

Il fresco verde, sollecitato dall'opprimente calura, esalava teneri aromi.

Spesso il sole ardente, geloso di questo pensile giardino,  vi appicca proditoriamente il fuoco, dapprima alla sterpaglia per poi coinvolgere tutto il verde, precipitando di colpo il monte in un arido, patetico scenario.

A noi, che avevamo ambiziose pretese di scalatori, prestava le sue rocce per cimentarci in un'ascesa festosa fino alla grotta di Sant’Angelo, ove sostavamo, per poi dare l'ultimo balzo fino al vertice della piramide, il Pizzone. Eravamo contenti per l'impresa riuscita, ma, voltando lo sguardo a Sud, vedevamo una vetta più alta ed un'altra più alta ancora. Ci accorgevamo allora che il monte Pizzone non era che la prima e più facile cima scalata nella nostra vita; ve ne erano ancora molte altre da scalare ed ancora più difficoltose ed irte. Nelle notti in cui la luna piena lentamente sale alle sue spalle per poi posarsi, come un'aureola, sul vertice del suo aereo profilo, rendendo cupa e fosca la faccia piramidale che si svolge ad Ovest, rifiorisce nelle menti il ricordo di una leggenda: la leggenda del diavolo.

Essa trae origine dalla presenza di sei impronte, lasciate, dicono, sulla roccia più liscia, ai piedi del monte, da un cavallo in fuga su per l'erta e montato dal diavolo.

Narrano, infatti, gli abitanti più vecchi del luogo che, una sera, alcune donne, intente, come solevano nelle sere estive, a pettegolar o raccontar fatti e aneddoti, fecero scivolare la loro curiosità su una donna di facili costumi, accusandola di concedersi, senza pudore, a tutti gli uomini.

La donna peccatrice, passando nei pressi, udì e replicò con sprezzante ironia: "Io andrei anche con il diavolo". Di lì a poco comparve, a cavallo di un lucido destriero, un signore avvolto in un nero mantello. Si avvicinò alla donna e le disse: "Tu verresti anche con me?".

E lei di rimando: "Certo che verrei su questo bel cavallo".

Detto e fatto.

Il cavallo scalpitò, sprizzò fumo dalle nari, espresse un lungo nitrito che sibilò nella notte e si lanciò in un frenetico galoppo.

La luna diffondeva il suo magico chiarore d'intorno; misteriosi riflessi argentei avvolgevano il borgo.

Il silenzio era scalfito, con ritmo uguale, dal triste lamento di un solitario gufo.

Il fiume versava la sua acqua giù per le cascate, in un suono assordante, mentre il cavallo procedeva trafelato nella sua folle corsa: gli zoccoli, a contatto con le pietre della Moppeta, emettevano scintille di fuoco che ferivano le tenebre. Latrati di cani in lontananza rimbombavano entro il pietoso monte che ne diffondeva l'eco di balza in balza. Arrivati alle falde del Pizzone, il cavallo cominciò a inerpicarsi su per l'erta. La donna, che per un attimo rientrò nelle sue facoltà raziocinanti, spaventata, esclamò: "Madonna mia!". Fu una gran fiammata. Cavallo e cavaliere svanirono in una nuvola di fumo e la donna si ritrovò per terra, priva di sensi. Da allora, le impronte degli zoccoli del cavallo sono rimaste impresse sulla liscia roccia e sono tuttora visibili.

Ma, oltre questa leggenda, il monte è diventato tristemente famoso anche per una tragedia umana. Geloso, forse, di alcune macabre prerogative delle grandi e difficili montagne, volle ed ottenne il sacrificio di una giovane vita.

Un mattino Gennarino, come al solito, aveva portato le sue capre al pascolo.

Le bestie s'erano arrampicate a brucar l'erba. Intanto Gennarino s'era disteso, sotto una frondosa pianta, a rimirar il cielo e la natura intorno, ad inseguir chissà quali sogni, certamente ignaro della tragedia che stava per compiersi.

Il fato volle che delle capre toccassero un masso malfermo.

Il macigno dapprima si mosse, poi cominciò a scivolare, infine rotolò precipitosamente portandosi dietro una serie di detriti e travolse inesorabilmente il povero Gennarino, che rimase esanime al suolo.

Il sangue bagnò quelle rocce, il sacrificio della montagna era compiuto.

Due corvi si librarono in larghe volute: contemplarono dall'alto la tragedia e si ritirarono, compunti.

 

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