**************ANGELO RENNA**************

LA NEVÈRA                                           

Ora che marzo lievita le zolle
là tra la gola angusta nel selvaggio sentor di foglie secche e di
fungaia risalendo meandri millenari

sgorga vena di liquido cristallo l’acqua della Nevèra.
Croscia il rombo
di roccia in roccia e si distende in rivo gorgogliando ciarliere tra
radici di castagni e ginestre in mezzo a l’er
ba filiforme sfiorata
appena appena

da luce obliqua lievemente smorta.
Nel fitto intrico di boscaglia opaca immacolate gocciole di gelo
brevi fiocchi caduti a un pel dal suolo le candide corolle i bucaneve
ciondolano alla brezza ed i muscàri

 

 

disseminan le balze di celesti
frammenti.

Crochi e anemoni stellati cespi gialli di primule arroccati
alle ripe dirute di pruina
iridata scintillano.
La felce nuova di linfe turgida violenta
con fallico vigore la matrice.
Il vento e l’acqua in favellare amico
ininterrotto fresco dàn la voce
al mattino di perla assorto concavo
come cupola immensa in cui s’accendono
lampi improvvisi d’ali.
In questo tempio
penetro canto con profano piede
pesante di materia ed ho paura
d’incrinare l’incanto stupefatto.
 

(19 marzo ’69)

 

VI SON CREATURE                            
Vi son creature che son nate d’acqua
e amano il ciangottar dell’onda uguale monotona
o il fragore dei marosi aggredire gli scogli.
lo son di terra, amo l’acqua purissima alla polla,
generata da nevi tra le felci
nel cuore ascoso della madreselva
e la vado a cercare negli anfratti,
su l’erte, nei dirupi dei calanchi
per giungere assetato avido ansante a conquistar la fonte.
Altre creature corron gli spazi a gara con la luce
verso nuovi pianeti inesplorati di remote galassie.
lo no che terra sono e amo andare a cogliere le stelle
tra il fogliame dei faggi lungo i cigli
delle montagne nelle notti fonde
quando a grappoli frutti luminosi tremolanti sfavillano tra i rami

e ti par di toccarli con la mano,
e più t’accosti e più ne sei lontano.

Altri invece consumano i secondi
nelle lacche le sete ori gioielli
di Piccadilly o di Piace de l’Etoille
nei ritrovi di Soho o nelle boites di Pigalle
tra etère e pervertiti istoriati di fiori
o tra i gabbioni di cemento
con oltre cento piani delle grandi metropoli.
lo rifuggo dal brulicame anonimo e dal tanfo di corpi marci.
Pei sentieri ombrosi dei boschi miei.
ove tra tronco e tronco il vento passa e con l’erbe discorre
non suoni falsi o ipocriti linguaggi io vi ritrovo ma semplici accenti
e se volti di donna o d’uomo incontro tendo la palma e l’altra
palma stringo certo che mi comprende chi comprendo.

                                                     (8 maggio ’69)

CIELO A PECORELLE                          
Manto lanoso riccio tutto bioccoli
candidi sfilacciati dalla spinta delle correnti.
Avanzano compatti in trine crespe solcate d'azzurro
vaghi tutù d'aeree ballerine
allineate nel can can finale
o verginelle salmodianti a schiere

in abiti di gigli.

 

 

 

O forse, forse adesso passa la fata che sposa
e lascia dietro uno strascico lungo
di raso merlettato che i paggetti
reggono a malapena.
Ma se il vento scompiglia la sottana
tra gli smagli traspare allora una pelle di delo.


(11 giugno '69)

 

L'ARMONICA A BOCCA                      

Vibrano nei miei pugni le linguette d'ottone.
Dalle canne scaturiscono note a migliala.
Ne ricolmo giumelle come sotto cascate zampillanti
di fresc'acqua sorgiva e me n'abbevero.
L'anima dilatata corre indietro
a riscoprir riverberi di vampe guizzanti nelle iridi ridenti
d'occhioni ingenui stretti accanto al ceppo
l'odore di castagne abbrustolite,
le intime veglie delle sfogliatura
tra mucchi di cartocci crepitanti,
il brio delle ragazze dei Maranni,
i racconti degli orchi e delle fate,
zi Cola, Mast'Antonio, don Giovanni,
zi Pietro, Nonna Assunta, zia Beatrice e zia Marianna
e zia Giuseppa e tante e tante facce care adesso estinte
brava gente che in testa non aveva molti grilli
che non desiderava se non la casa
ed un pezzette d'orto, maritare le figlie
e sistemare i maschi
e poi con l'abito di festa adagiarsi sul fianco e riposare
per sempre quelle povere ossa stanche.
Tornano folle di motivi antichi,
di cori scanzonati a voce piena,
storie di gelosia passione morte
nate sul passo grave da montagna tra i nevai
o nel fango di trincere.
Rivedo il nonno con berretto bianco
da gelatiere con voce profonda far da bordone
quando rincasava un poco sbronzo e non pensava a guai.
Zia Carolina tenev'alto il canto
e tutt'insieme a coglier stelle alpine
per donarle, donarle alle bambine,
farle piangere, piangere e sospirar.
Oh c'è sempre per me quel bei giardino di

rose e fiori
e quella Desolina ricama ancora i suoi fazzolettini
da regalare al primo, al primo amore.
Come densa scorreva allor la vita

 

 

vergini i sensi percepivan gli attimi
e gli anni erano secoli.
I tramonti d'estate che bruciavan l'occidente
ci raccoglievano a cantar sul ponte
dalle spallette levigate a specchio,
con sciami di fluidi di lucciole attorno
e nottole e falene volteggianti
in tardi giri al lume dei lampioni.
Mondo sereno,
albe dei primi giorni,
tutto mi sboccia in mente appena tocco
la "sonaglièra".
E risento gli schiocchi delle scurriate,
lo stridor di ruote sul selciato,
l'odore d'erbe buone di trifoglio di fieno
quando i carri tornavano dai campi
nel crepuscolo brulicante d'insetti
e i campanacci delle greggi belanti
sbatacchiavano per le strade affocate.
11 tempo adesso
s'è scatenato vuoto, limaccioso.
Non mi ritrovo nel volto degli altri
ne mi conosco più nei sogni miei.
Ridotto a un disco, a un vecchio manifesto,
son la copia sbiadita di me stesso.
Se fossi certo d'incontare ancora
quel piccolo universo dei Maranni
a falcate possenti
da gigante col sacco sulle spalle
e gli scarponi sull'armonica a bocca risuonando
la canzon della "vecchia fidanzata che mando a pascola"
una bella sera senza rimpianto vorrei valicare
l'estremo solco, l'ultima frontiera.

(20 maggio '69)

**************ALFONSO RAVIELE**************

 

TE VULIMMU SALVÀ                            

Vecchio castello,

simm' a pochi,

te vulimmu salvà,

ma nun  tenimm' aiuto

'e ll'autorità.

 

Simm' 'a tanti,

ma pochi te guardene

cu' sincerità.

 

Tu stai llà,

statico;

chiammi sempe aiuto

ca nisciuno te vo' dà.

 

Pochi stammo cu' tte!

Te futugrafammu,

t'allustrammu,

cercamm'  'e fa breccia,

cu' lla tua immagine,

'int' 'o core

'e chi te vo' scurdà.

Ma nun ce sta peggiore surdo

'e chi nun vo' sentì!

 

 

 

 

Tu, invece, 'e sienti

'e voce noste,

'e canti nuosti

e chilli, c' 'a tant'anni

te sfiorene, passanno.

 

Pure pe' tte

so' passati l'anni;

ma stai llà,

vo' sta' ancora llà!

 

E si' tu ca ce chiammi,

tu, ca ce vist' 'e crescere

e c' hamm' abballato e cantato

accant' a tte.

 

Tu ce cunusci a tutti quanti!

 

Chi se n'è gghjutu

te porta 'int'aall'anima

e quannu torna,

già te vére 'a luntano...

e penz''o passato.

 

Nuje perciò te vulimmu salvà

e chiedimm' aiuto all'autorità.

 

 

 

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