Massimo Zullo
Un caudino nella steppa
intervista a Peppino Crisci, reduce dalla Campagna di Russia

Premessa

"Peppino, Peppino, figlio dell'amore in quale vicolo o strada batterà il tuo cuore in quale culla di pietra pura imparerai la vita è un'avventura. Peppino, Peppino, tu la dovrai amare amare è dura e senza frutti al sole sei tu il coraggio e la fantasia la vita tua diventa mia. E da solo andrai verso il mio domani con i tuoi occhi e con i miei occhiali e non sei solo, solo nell'amore, Peppino dai i tuoi occhi al cuore. Un padre e un figlio con un solo abbraccio squarciano il tempo, vanno oltre lo spazio cani randagi nella notte scura la vita no, non fa paura. Cani randagi nella notte scura la vita no, non fa paura" (Antonello Venditti in "Venditti & Segreti", 1986).

PEPP'ARPAIA

Peppino Crisci arrivò a Ioffredo nel 1946 per aver sposato Giovannina Zullo, sorella di mio padre. Fu subito per tutti Pepp'Arpaia e il nomignolo conteneva un'indicazione di provenienza. Reduce dal fronte russo, già piuttosto calvo, magro e coi baffi neri, sembrava un personaggio uscito dai films sul neorealismo di quegl'anni. Da sottufficiale ritornò ad un vecchio amore, che era nella storia della sua famiglia: il commercio. Lo esercitò con successo; lavorò tanto, troppo in quel periodo difficile. Ebbe quali punti di riferimento la famiglia e il lavoro e un rispetto quasi sacrale, una vera devozione per lo studio. Non difettava di proprietà di linguaggio e fu un bravo commerciante di olio. Si svegliava all'alba e le sigarette, il tressette e la siesta pomeridiana, celebrata come un rito, furono per anni gli unici svaghi d'una vita dedicata al lavoro e alla famiglia. Della calabresella fu fra i massimi interpreti, al punto da costituire col Tiretto e Tatonn'e Miciucchella un mitico sodalizio, il "Trio dalla Carta Storta. Sit levis humus, caro vecchio Pepp'Arpaia!

Premessa

Nel 1938 l'Italia firma con il Terzo Reich il Patto d'acciaio. Il primo settembre Hitler invade la Polonia. Inizia così la seconda guerra mondiale. Con la guerra cominciano i guai anche per gli italiani: restrizioni e divieti. niente carne per alcuni giorni, niente caffè nelle drogherie, tessere annonarie, oscuramento, prova delle sirene di allarme. Non siamo preparati alle prove che ci attendono. Secondo il maresciallo Graziani l'esercito è al livello di una falange macedone; per il gerarca Farinacci è un'armata di giocattoli. Spagna ed Etiopia ci hanno logorato ed illuso sulla nostra forza reale.

La campagna di Russia fu una vera disfatta. I soldati italiani erano scarsamente equipaggiati, poco addestrati. Il generale inverno e il generale spazio, sfruttato all'inizio da Stalin, costituivano un nemico in più per le truppe italiane. Ci si lavava con la neve. Si moriva di fame e di freddo; le razioni dei soldati erano del tutto insufficienti: quella di un soldato tedesco consisteva in una fetta di pane al giorno. L'Armata italiana era talmente male equipaggiata che i tedeschi commentavano: "Con un alleato simile non vinceremo mai la guerra." Molti soldati italiani si accorsero quasi subito di essere stati mandati allo sbaraglio, altri pensavano che Mosca sarebbe stata raggiunta dopo l'inverno. La ritirata italiana fu terribile.

Ha scritto Montanelli: "Una parte dell'Armir già arrancava verso occidente, nel disperato tentativo di sottrarsi alla prigionia, e a mano a mano che la marcia nella neve e nel freddo implacabile proseguiva, i reparti perdevano la loro capacità di combattimento, diventavano torme di uomini disperati: le loro file si assottigliavano, per gli attacchi delle colonne mobili russe e per l'assideramento." "Ci ritiriamo" - dice un reduce - "con i nostri cappottini, i nostri pantaloncini e con quelle scarpe chiodate che portavano dritte al congelamento".
Pietro Barilla, re della pasta, di recente scomparso, parlando della guerra in Russia, cui aveva preso parte da soldato semplice, ebbe a ricordare: "Ricordo le attese senza speranze, ricordo che, senza parlarne mai, ci preparavamo tutti a morire, ricordo quella sorda rassegnazione che si era fatta strada in ognuno di noi. Vivevamo nello sconforto, nel gelo, nei pidocchi, nella fame, nel silenzio, certi di non tornare più a casa."

Nuto Revelli ha detto in un'intervista al Manifesto: "Migliaia di uomini mandati a morire con tanta superficialità e senza preparazione. In Russia non credevo più a niente".

Ci si salva pensando a casa, alla mamma, alla patria e, chi ha fede, a Dio. Nella tragedia c'è chi prega; i cappellani chiedono di stare nei campi di concentramento con i soldati; gli ufficiali hanno più forza, si difendono. I Russi combattevano al limite del fanatismo, quasi che per loro la vita non avesse significato, valore. I contadini Russi fraternizzavano con i soldati italiani, meno duri di quelli tedeschi. Il poeta Svetlov dedica una lirica agli infelici combattenti:

O giovane nato a Napoli!
Che cosa cercavi sui campi della Russia?
Perchè non sei rimasto là felice
Nel celebre tuo golfo natìo?

Nel disastro emersero figure umane straordinarie: non tutti i generali abbandonarono la truppa, non tutti gli ufficiali si strapparono i gradi; molti comandanti di reggimento spartirono la sorte dei loro reparti, molti subalterni stettero fino alla fine con i popolani del loro plotone.

Ho raccolto la testimonianza di Peppino Crisci sulla campagna di Russia per inoltrarla ad un suo cugino, Francesco Crisci, classe 1919. Generale dei Vigili del Fuoco in congedo a Bologna, Ciccillo Crisci era stato prigioniero durante la guerra e stava raccogliendo materiale perché, nel 1993, si accingeva a scriverne un libro memorie. Peppino Crisci mi ha raccontato la sua esperienza di guerra, così come faceva con i figli, raccolti intorno al focolare domestico, quando ancora la televisione non aveva invaso le nostre case. Quando gli ho chiesto di raccontargli la sua odissea, dall'arruolamento alla campagna di Russia, ne è venuto fuori un lucido racconto, tutto d'un fiato, che ho appena ritoccato. Solo a tratti è riuscito a trattenere l'emozione: la guerra lo ha segnato al punto che ancora per anni gli è capitato di ridestarsi, durante la notte, a causa degli incubi. Sotto forma d'intervista, il racconto fu poi pubblicato nell'ambito della rubrica "La nostra storia" su l'Altritalia, giornale caudino, numero I anno 6 del gennaio 1996, pag. 14. Titolo: Un caudino nella steppa (Sottotitolo: Il drammatico ricordo di un combattente della campagna di Russia). Sembra di rileggere capitoli di Mario Rigoni Stern o di Giulio Bedeschi, che parteciparono a quell'avventura come ufficiali e la raccontarono magistralmente. Ripropongo ora quell'intervista in ricordo di Peppino Crisci che, il 2 settembre 2002, si è serenamente addormentato nel sonno dei giusti (Massimo Zullo).

Carriera militare e prime esperienze belliche


Mi racconti la storia della sua carriera militare.
Sono della classe 1917. Sono nato ad Arpaia, nei pressi delle Forche Caudine. Mi sono arruolato nel 1936 nel XV Reggimento Fanteria, Scuola Allievi Sottufficiali di Casagiove, in provincia di Caserta. Finito il corso, fui assegnato al XCI Reggimento Fanteria di Rivoli Torinese. Trascorsi i due anni di servizio, dietro domanda di rafferma, mi fu concesso il trattenimento fino alla fine del 1938. Scaduto il termine, fui inviato in congedo per mancanza di posti.

Fui richiamato alle armi alla vigilia delle ostilità con la Francia, nello stesso Reggimento che prese parte alla guerra con la Francia, durata solo cinque giorni. Il nostro equipaggiamento era molto scadente, tanto che all'altezza di circa 2000 metri cominciavano i primi congelamenti. Cessata la guerra con la Francia, occupata dalle truppe nazi-fasciste, rientrammo in sede; nell'aprile del 1941, l'Italia dichiara guerra alla Jugoslavia; il mio reggimento partecipò alla occupazione della Jugoslavia, cedendo poi il posto alle truppe di occupazione.

1936 - Corso Allievi Sottufficiali
Casagiove (CE)


Dopo pochi mesi tutta la divisione fu trasferita in Sicilia (il XCI Reggimento Fanteria non apparteneva più alla divisione Superga; mutava il nome in XXX reggimento Fanteria ed apparteneva alla divisione Assietta).

Tutta la divisione Assietta fu trasferita in Sicilia nell'aprile del 1941 come truppe anti-sbarco e da utilizzare, all'occorrenza, per le manovre militari nel Nordafrica. Dalla Sicilia, nell'agosto del 1942, si formarono dei battaglioni di complemento per l'avvicendamento delle truppe operanti in Russia. I soldati di questi battaglioni erano per lo più schedati, avanzi di galera, insubordinati. Essi si rivelarono, in terra di operazione, i combattenti migliori.

Che ci faceva in mezzo a loro? Come si trovava là?
Non mi trovavo fra loro per caso; in Sicilia ero stato accusato di aver mancato con una ragazza del posto. Per questo motivo fui aggregato ai battaglioni in partenza per la Russia. feci una sorta di voto: "Non tornerò dalla guerra se ciò di cui mi si accusa è vero".

1941 - Rivoli Torinese
dopo il richiamo alle armi

La partenza per la Russia e per la guerra

Come e quando avvenne la partenza per la campagna di Russia?
Formati i battaglioni di complemento nei pressi di Catania e Acireale, il I settembre del 1942 fummo trasferiti in Russia in tradotte militari molto male attrezzate (si trattava, in realtà, di veri e propri carri bestiame).
Io facevo parte del CI battaglione di complemento fanteria, divisione Torino, destinazione Russia.
Con un contrordine fummo invece assegnati all' LXXXII reggimento fanteria della stessa divisione. Andammo direttamente al fronte, sul Don, senza alcuna preparazione bellica, malvestiti, senza cappotti a pelo, inadeguatamente equipaggiati. Gli armamenti erano rappresentati da fucili modello 91, assolutamente inadeguati, e da munizioni deteriorate per il 60/70%.


1941 III Battaglione in distaccamento ad Alpignano (TO)



1942 In Sicilia


1941: Poligono di tiro a Rivoli Torinese


20/7/1936 Campo estivo a Montefolle Val di Susa (TO)


20/10/37


maggio 1941: di ritorno dall'occupazione jugoslava: Alpignano


Alpignano Torinese


1941 Di guardia alla caserma di Alpignano Torinese


maggio 1942: Santa Caterina Villaermosa (Catania)

Qual è il fatto che le è rimasto più impresso nella memoria?
La sera del 15 settembre 1942, mentre davamo il cambio ai veterani, ci fu un improvviso attacco da parte dei Russi; il tenente Guarnieri, colpito in pieno volto da una bomba a mano, morì.

Comincia l'avventura della guerra.
Ero stato assegnato, con il grado di sergente maggiore, al caposaldo numero 2, come comandante del caposaldo. Esso recava la scritta "Tenente Guarnieri". In dotazione al caposaldo c'erano: una mitragliatrice modello Breda 37, un mortaio Blix 45, un fucile mitragliatore e due squadre fucilieri. Le munizioni erano scarse e scadenti.

Non eravamo in grado di sostituire pezzi alle armi in dotazione, perchè non c'erano pezzi di ricambio. Ricordo benissimo che non potevamo sostituire la punta del mortaio che, deterioratasi, non batteva più la capsula detonante. Con un po' di fortuna, dalle nostre armi partiva un solo colpo su cinque esplosi.
Considerata la distanza da una sponda all'altra del fiume di 300 metri circa, si capisce come i nostri mortai erano inefficienti e del tutto inadeguati.

Riuscivamo ad arginare gli improvvisi attacchi dei Russi, meglio attrezzati e più abituati al rigido clima, solo grazie ai mortai 81, posti nelle retrovie, a 500 metri dalle nostre postazioni. Io spronavo i soldati e davo loro l'ordine di non sprecare inutilmente le munizioni, largamente insufficienti. Gli attacchi dei Russi si susseguivano dall'imbrunire all'alba; riuscivamo a respingerli solo grazie al valore dei nostri soldati.

Mi è rimasto impresso nella memoria un fatto accaduto il 16 dicembre 1942: fummo attaccati da una forza numericamente superiore e meglio equipaggiata; riuscimmo a tenerli a bada fino all'alba (le cinque del mattino circa); grazie all'intervento di due squadre Arditi che accerchiarono i Russi, riuscimmo a liberare diversi prigionieri italiani caduti in mano russa. Ricordo che il comandante della spedizione russa volle conoscere di persona colui che difendeva il caposaldo numero 2.

La ritirata

Quando vi accorgeste che la guerra era ormai persa?
Il giorno 19 dicembre 1942 arrivò un ordine: dovevamo lasciare le postazioni brillantemente difese e portare con noi qualche coperta e armi leggere (fucile e fucile mitragliatore).
Dovevamo insomma abbandonare tutto; ci lasciarono intendere che le nostre posizioni erano state assegnate alle truppe alpine. Capii subito che le notizie erano false ed eravamo accerchiati (non era, infatti, possibile un avvicendamento delle truppe, se poi dovevamo lasciare le armi pesanti).
Da questo momento in poi ha inizio la disfatta delle truppe nazi-fasciste. Gli attacchi provenivano da ogni direzione. Arrivati al comando di direzione, un ufficiale ci confessò: "Siamo accerchiati".
Durante la ritirata, con le poche armi a disposizione, riuscimmo per ben undici volte ad aprirci un varco.
Ma, quando credevamo di essere riusciti a rompere l'accerchiamento, ci trovavamo nuovamente accerchiati.

Ci racconti qualcosa di quei momenti.
La temperatura si aggirava sempre intorno ai 25-30 gradi sotto lo zero.
Ricordo che un giorno, per lavarmi, feci sciogliere la neve e mi lavai i capelli, che si spezzarono uno dopo l'altro, dopo essersi ghiacciati. La maggior parte dei soldati moriva non combattendo, ma di assideramento.

Cosa Le è rimasto impresso della ritirata?
Si dormiva camminando. Un giorno sognai mio padre, che era morto, che mi portava per mano e mi diceva: "Non temere, tornerai sano e salvo a casa".
Il sogno si è poi avverato. La ritirata fu lunga e piena d'insidie.
Dal 19 dicembre 1942 (inizio ritirata) al 3 febbraio (uscita dalla sacca, cioè dall'accerchiamento) abbiamo vissuto in condizioni disumane. La ritirata è stata lo sfascio completo dell'armata, un disastro, un vero fallimento. Il soldato doveva badare da solo a se stesso. Badare a sopravvivere, a difendersi. Non avevamo cibo, non vi era nessuna organizzazione, nè di ordine militare, nè morale. Eravamo come condannati al nostro destino.

E' difficile crederlo; ma quando un soldato moriva, chi gli stava vicino pensava, come prima cosa, ad appropriarsi di qualche galletta che aveva nel tascapane, di qualche scatoletta, ma soprattutto del pacchetto delle medicazioni.
Ricordo con molta emozione un episodio: alla vigilia del Natale del 1942, si era formata una linea di difesa di cui facevo parte, intorno ad una casa abbattuta che bruciava; ad un tratto, spinto dalla fame, mi gettai a tuffo su di un pollaio e presi una gallina. Ne succhiai il sangue, poi la divisi con i compagni. La mangiammo cruda.
Mentre accadeva ciò, fui ferito all'avambraccio sinistro da schegge di mortaio che per fortuna non intaccarono il nervo. Soffrivo già di forti attacchi di diarrea.

Come erano i rapporti fra commilitoni?
Tra di noi esisteva un forte sentimento di solidarietà. Dividevamo tutto, mangiando per lo più patate, semi di girasole, qualche sottaceto. Trovavamo questi viveri in nascondigli costruiti all'interno delle case. I Russi, infatti, prima di fuggire, scavavano dei nascondigli, per conservare le scorte alimentari.
Noi, scoperto ciò, prendevamo patate e tutto il resto, non per vandalismo, ma per necessità.
Prima di entrare in un villaggio per trascorrervi la notte e poi ripartire, bisognava combattere duramente con i civili, che si difendevano impedendo la occupazione. La mattina, quando si ripartiva, i soldati tedeschi compievano vere e proprie stragi, non risparmiando vecchi, donne bambini. Finalmente, il 3 febbraio 1943, riuscimmo ad arrivare sul Donec; un ponte ci separava dalla città di Vorosilovgrad.
Il ponte saltò in aria per mano dei tedeschi, che fecero un ultimo disperato tentativo di fermare l'avanzata russa; così perirono molti soldati russi ed italiani che ivi cercavano scampo. Oltrepassato il ponte, arrivammo a Vorosilovgrad, dove si formarono colonne di automezzi, che ci condussero a Leopoli (Polonia) toccando le città di Poltava, Kiev, Cerko. Lì ci furono portate le prime cure. In un ospedale improvvisato, ma efficiente, i nostri vestiti furono disinfettati e spidocchiati. Ci fu anche somministrata una bevanda calda.
Non ne ho mai bevuto una tanto saporita in vita mia!
La nostra armata era decimata. Noi superstiti eravamo scalzi ed affamati; soffrivamo di diarrea e colera. Molti morivano di stenti. Si andava all'attacco come si poteva e si combatteva con i civili.
Durante la ritirata lasciammo, in una zona da noi ribattezzata Valle della Morte, circa 20.000 feriti. Erano allineati per terra, feriti e affamati. Non potemmo portare loro il minimo aiuto. L'unico che non volle abbandonare i feriti fu un cappellano con il suo attendente. Dopo una settimana di cure si formò il treno ospedale numero 10. Era un carro bestiame.
Viaggiammo seduti per terra e senza viveri. Arrivati a Milano, per evitare che i civili ci vedessero così malridotti, si fece suonare l'allarme aereo; così la polazione avrebbe cercato rifugio e noi potevamo raggiungere il tram che ci portò all'ospedale militare di Baggio (MI). Era il febbraio del 1943.
Da Baggio fummo trasferiti a Lecco (CO), in un albergo requisito ed adibito ad ospedale. Ottenuta una licenza di convalescenza di 60 giorni, siamo tornati a casa. Prima di raggiungerla, mi recai a piedi al Santuario della Madonna di Pompei (NA) per ringraziare la Vergine; calzavo una scarpa ed un sandalo; avevo un forte fastidio ai piedi a causa dell'assideramento. Arrivai a casa su un carretto dalla stazione di Arpaia, esausto, la barba lunga; i miei stentarono a riconoscermi.


Il ritorno in caserma

Quando sono rientrato nella caserma dell' LXXXII Reggimento Fanteria a Littoria, oggi Latina, la cosa che più mi ha colpito è stata che i superstiti del mio reggimento erano in tutto 70 persone, su un totale di 1000 partiti per la Russia.
Io, pur essendo ferito, i piedi che mi davano ancora fastidio per i postumi del congelamento, ero fra coloro che stavano in condizioni fisiche migliori. Al reggimento incontrai un ufficiale, oggi magistrato in congedo a Roma, il tenente Pier Maurizio, che era stato comandante del mio plotone alla scuola allievi sottufficiali di Casagiove, che mi voleva arruolare nella sua compagnia, che era destinata alla contraerea sui treni; lo pregai di tenermi fuori da questa avventura, che peraltro rimase allo stato di progetto.

Da Littoria fui trasferito al campo di concentramento in provincia di Viterbo, nei pressi di Montefiascone. Nuovo trasferimento a Civitella Cesi, nella tenuta del duca di Torlonia, con il compito di sorvegliare 50 prigionieri sudafricani di origine inglese. Il compito dei prigionieri era quello di bonificare il terreno.
Essi ricevevano settimanalmente un pacco di viveri da dividere in due, che contenevano: frutta secca, cacao, cioccolato, tè, latte in polvere, scatolame di carne e di pesce, sapone da barba e saponette bianche, che da noi non si vedevano da prima della guerra, zucchero e ogni ben di Dio.
Poichè il cibo doveva essere consumato, non conservato, per evitare fughe di prigionieri, i contenitori del cibo venivano bucati.
I prigionieri non riuscivano a mangiare tutto e a volte ci offrivano qualcosa; essi non avevano propositi di fuga, anche perchè si trovavano troppo bene in quel luogo.

Rimasi in quel campo fino all'8 settembre.
Quel giorno mi trovai casualmente al comando, ad Acquapendente, per il versamento mensile della contabilità. Mi trovai di fronte ad un bivio: tornare a Civitella Cesi o andarmene a casa. Scelsi questa strada, perchè c'era una situazione di sbandamento completo per l'esercito. Me ne tornai a casa, in tre giorni di marcia forzata, prendendo talvolta il treno. Arrivammo a Terni, di là proseguimmo per Sulmona, poi, per Guardia, nei pressi del fiume; pensai di arrivare, seguendo il fiume, a San Giorgio La Molara, ma sapemmo che là erano accampati i tedeschi, che non ci avrebbero risparmiati; allora ci fu consigliato di seguire la teleferica: ci trovammo a Cerreto Sannita, quindi a Telese; lì ebbi un passaggio da un amico di un mio zio, che faceva il carbonaio e mi caricò sul suo carretto, portandomi fino a casa. Successivamente feci risultare di essere figlio unico di madre vedova e non fui più richiamato per andare a combattere a Cassino.


Poligono di tiro;
esercitazioni con pezzi da 47x32
mm anticarro e mortai da 81 mm.


marzo 1943:
di ritorno dalla campagna di Russia
con un ragazzo di Barra (NA)



marzo 1994: calabresella al bar


a casa, in una foto del 1993.

Spostamenti

aprile 1941 Partenza per la Jugoslavia
1942 Sicilia: truppe anti-sbarco
agosto 1942: Partenza per la Russia
19 dicembre 1942: inizio ritirata
3 febbraio 1943: arrivo a Vorosilovgrad
febbraio 1943: Arrivo a Leopoli, toccando Poltava, Kiev, Cerkov
Dopo 1 settimana: ritorno a Milano, toccando Cecoslovacchia, Austria, Jugoslavia;
ricovero a Baggio (MI). Ottenuta licenza di convalescenza, ritorno a casa, Arpaia (BN), passando per il santuario della Madonna di Pompei
Dopo 60 gg: ritorno a Littoria (LT): assegnato al campo di concentramento di Montefiascone e poi trasferimento alla tenuta del duca di Torlonia a Civitella Cesi (VT).
Dopo l'8 settembre, ritorno da Acquapendente (VT) ad Arpaia (BN)


il giorno del matrimonio con Giovannina Zullo, chiesa di San Nicola, Ioffredo, 28 aprile 1946