PARI OPPORTUNITÀ

 

Il fallito assalto delle donne italiane al Parlamento

In un saggio di Isabella Rauti le ragioni della scarsa partecipazione alla politica

 

EUGENIA ROCCELLA

 

  Perché nel Parlamento italiano le donne sono così poche? nonostante le enormi conquiste degli ultimi cinquant'anni, il potere politico è rimasto un feudo maschile chiuso, inespugnabile. Forse, sostengono alcune femministe, è perché nessuno lo vuole davvero espugnare: non c'è mai stato un assedio,una reale volontà di appropriarsi della politica secondo i modi e i tempi con cui gli uomini l'hanno costruita. le donne si occupano allegramente d'altro, arricchiscono la vita sociale del loro contributo seguendo modelli diversi; inventano forme di partecipazione di confine, tra pubblico e privato, e difficilmente si sentono davvero rappresentate dai partiti e dalla dialettica parlamentare e istituzionale.

  È davvero così così? Isabella Rauti, consigliera nazionale di parità, si interessa di questioni femminili da sempre. lo fa secondo un'ottica "di destra", poco consueta (e pochissimo accettata) nell'ambito del pensiero delle donne. Con il suo ultimo libro, Istituzioni politiche e rappresentanza femminile. Il caso italiano (Editoriale Pantheon, pagg. 238, euro 15), affronta l'irrisolto nodo della rappresentanza sia attraverso una sintesi storica, sia entrando nel dibattito teorico-politico sulla democrazia paritaria.

  Per la Rauti, che insegna storia delle istituzioni politiche, il ritardo con cui il nostro Paese ha varato la legge sul suffragio femminilenon è certo un fatto accessorio. La diffidenza secolare degli uomini italiani nei confronti dell'ingresso delle donne nella vita pubblica, si è espressa nella lunga resistenza a concedere alle donne il diritto di voto. Se c'è stata una costante, nella tormentata vicenda storico del nostro Paese, è stato proprio l'isolamento di chi chiedeva che le donne potessero votare: dalle prime, timide proposte di Benedetto Cairoli (dietro cui agiva la "mamma d'Italia", Adelaide Cairoli), alla lotta minoritaria di Anna Kuliscioff, fino ai programmi, presto accantonati, del primo fascismo.

  Nel dopoguerra, con l'avvento dei partiti di massa, le donne, soprattutto cattoliche e comuniste, hanno preso la parola, sono state protagoniste del nuovo associazionismo femminile, sono entrate nei sindacati e nei partiti, hanno finalmente votato; ma le percentuali di presenza nel Parlamento si sono sempre mantenute basse, fino a toccare, nel fatidico '68, il minimo storico, un ridicolo 3 per cento. Negli organismi e nelle conferenze internazionali, intanto, si sono affermate parole d'ordine come mainstreaming, ed empowerment; l'obiettivo è ottenere più potere per le donne e centralità per le tematiche che le riguardano. Il problema della rappresentanza si rirpopone dunque con forza, insieme alla battaglia per le cosiddette "quote rosa" e alle politiche di azioni positive.

  Isabella Rauti non è una sostenitrice ad oltranza delle quote, che considera un male necessario, uno strumento da usare con parsimonia e cautela, e da abbandonare appena possibile. Con grande chiarezza, precisa che le donne "non sono una categoria né un gruppo di interesse", e che non si tratta di una lobby che spinge per ottenere qualcosa per sé, quanto di un problema di funzionamento democratico, di interesse generale. Una democrazia che si fondi sulla tacita esclusione di donne ha qualcosa di malato, nasconde una ferita che va sanata. È vero, ammette l'autrice, che la partecipazione delle donne segue spesso percorsi diversi da quelli maschili, che "le donne si mobilitano spinte da motivazioni forti, da problemi autentici" più che "dalla politica politicante"; ma forse questo atteggiamento maschera anche un annoso problema di autoesclusione, un'incapacità storica a sentirsi, e ad affermarsi, adeguate ai ruoli decisionali. E d'altra parte l'asimmetria, nella rappresentanza, è un difetto della politica come costruzione maschile, modellata su sistemi di cooptazione e selezione che emarginano, di fatto, le donne. Bisogna abbandonare certi miti femministi diventati luoghi comuni (dall'idea che le donne votino le donne, a quella che l'estraneità femminile alla politica sia una manifestazione della differenza di genere) e porre la questione in termini diversi: una democrazia asimmetrica, scrive la Rauti, è, in sé e per sé, una democrazia incompiuta, qualcosa a cui bisogna porre rimedio.

 

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