Gli eroi sui marmi / i fessi sui muri

Affinché il loro nome / eterno duri!

  di MASSIMO ZULLO

Era solitario, burbero ed umbratile; a memoria d’uomo non lo si era mai visto parlare con chicchesia. Amava la natura e, nonostante sapesse a malapena scarabocchiare il proprio nome, non gli faceva certo difetto l’estro. Il cognome diceva chiaramente che non era originario delle nostre parti; ispirava perciò una certa diffidenza.

Era irascibile e diventava intrattabile soprattutto quando aveva bevuto. Quand’era di buon umore, invece, si dilettava a suonare l’organetto come usavano a quel tempo i carbonai, col fiasco di vino a fianco.

Si era fatto costruire una casetta che sorgeva affianco ad un’edicola votiva. La minuscola cappella di Sant’Antonio di Padova l’avevano eretta le suore del vicino convento di Ferrari[1] proprio nella parte in cui il terreno loro donato da un ricco possidente, tale Pasquale Simeone, confinava con la strada, una mulattiera stretta e umida nella quale a stento passava un carretto.

Tutt’intorno c’erano fonti d’acqua, ove le donne lavavano i panni e il viandante poteva trarre refrigerio dalla calura estiva. Più avanti una croce su pietra lavorata da Michele ‘o Scarpellino ricordava una delle tante Missioni (esattamente quella del 1934) con le quali i tonitruanti Padri Passionisti Liguorini combattevano la secolarizzazione della società e l’ateismo dilagante. Anche il nome della strada, Ciccupagliotta, derivante da un signore che vi aveva a lungo dimorato, aveva un che di fiabesco.

Dal progetto venne fuori una bicocca di due stanze, con cantina al piano terra, fiocamente illuminata, confinante coi boschi. La lasciò solo poco prima del terremoto dell’80, quando andò a morire nel Potentino, accudito dal figlio. La strada era completamente circondata da piante; l’umidità penetrava nelle ossa e contribuiva ad alimentare sindromi ipotiroidee. In compenso, d’estate si poteva godere della frescura che calava da Cornito. Intorno c’erano ripe ben tenute e corsi d’acqua che confluivano in un grande torrente, che d’estate si asciugava quasi del tutto. Faceva paura transitare in quel posto isolato e certamente popolato di fantasmi, spiriti, munacielli e ombre. Egli non faceva niente per smentire quelle voci; anzi, chiuso nel suo sdegnoso isolamento, o forse per meglio goderne, le alimentava. Trascorsi molti anni dalla storia che stiamo raccontando, sparava col suo fucile colpi nell’aria, mancando di poco i discoli locali che transitavano di là per infastidirlo, mentre a orari fissi consumava il suo misero desco fatto di uova fritte, pane e vino. Prima di caricare a pallini a salve il suo asfittico arnese, li cospargeva di sale, per farli più male se li avesse centrati.

A destra e a sinistra della casetta sorgevano due castagni selvatici; in estate inoltrata e d’autunno i cardi ne ornavano la facciata. Attraverso una stretta scalinata potevi guadagnare il piano nel quale il Nostro viveva solitario.

La casetta era stata progettata e realizzata in quegli anni ruggenti del fascismo, al quale era, per naturale scetticismo e pessimismo, se non ostile, certamente del tutto indefferente. Alla destra della residenza, che per lui doveva essere principesca, sorgeva un viottolo che conduceva all’edicola dedicata all’Addolorata. L’aveva fortemente voluta una madre alla quale era parso di vedere la Madonna, nei boschi ove le nostre nonne andavano a raccogliere la legna. La Vergine Addolorata l’aveva rassicurata che il figlio sarebbe presto tornato, sano e salvo, dalla Grande Guerra. Finita la guerra e tornato il figlio, la pia donna aveva sciolto il voto.

Erano gli anni in cui, al padre cui nasceva una figlia femmina, toccava l’umiliazione di essere condotto in giro per il paese a dorso di asino. Ci si fermava nelle locali cantine, dove gli amici offrivano da bere al malcapitato. Qualcuno per sfuggire all’onta, aveva finito col rifugiarsi in soffitta.

Il Nostro aveva appena finito di costruire la casa, quando uno squadrista del posto, volendogli far pagare l’indifferenza al fascismo, gli fece orrendamente imbrattare il muro della casetta che sembrava uscita da una fiaba dei fratelli Grimm con una scritta retorica, di quelle che campeggiavano sui muri in tutto il paese e delle quali tutta l’Italia in camicia nera andava fiera. Da poco si era insediato a Cervinara il primo podestà dell’era fascista.

Don Domenico Clemente, che aspirava alla carica e godeva di grande prestigio fra i cervinaresi, pagò il risentimento del conte Giuseppe Del Balzo di Presenzano, che non perdonò a lui e al suo partito di aver fatto affiggere sul portone del palazzo marchesale la foto di un uomo dal naso aquilino, che sembrava la caricatura del conte per la impressionante somiglianza del profilo. Il fatto é che l’uomo, giunto al paese anni prima, vi viveva solo e ramingo; era per tutti ‘Ntonio ‘o Locco ed era capitato in quel di Ferrari venendo da un paese ‘e vascio. Era considerato lo scemo del paese e come tale é rimasto nella memoria storia della comunità.

Il conte, tempestivamente avvertito della nomina che don Mimì sembrava avere già in tasca, “volò” a Roma e non ebbe difficoltà a far bocciare la proposta, forte delle amicizie delle quali godeva a corte. In quest’episodio accreditato dalla voce pubblica c’é forse uno degli ultimi scontri fra aristocratici ed borghesia emergente, fra nobili e self made man che rivendicano un ruolo politico di primo piano. Al posto di don Domenico Clemente fu nominato l’onorevole Edoardo Brescia e, per sovrammercato, fu proprio Clemente a presiedere il comitato per l’accoglienza che il protocollo imponeva.

Non dormiva, intanto, il Nostro, che si rivoltava nelle dolorose piume, smanioso di lavar l’onta. Fin quando, dopo defatiganti e diuturne spremiture di meningi, una notte si svegliò di soprassalto e gridò “Eureka!” non diversamente da come aveva fatto Archimede un paio di millenni prima.

Era, però, analfabeta e scrivere per lui doveva essere un’impresa. La circostanza si rivelò una opportunità: potè, infatti, godere così dell’usbergo dell’anonimato, ma dovette incaricare della risposta un giovanotto del luogo. Fu per lui felice quella notte che gli portò in dote il distico dileggiante di risposta all’affronto subito.

Oggi quella casa e l’edicola di Sant’Antonio illuminata con una piccola lampada non ci sono più. A metà degli anni ’80 la strada é stata allargata, la muraglia abbattuta. Le ruspe si son portate via un altro pezzo della piccola storia paesana.



[1] Le suore del Buon e Perpetuo Soccorso arrivarono a Ferrari nel 1885 per iniziativa di un ricco possidente, che fece loro dono di un’ala del proprio palazzo a condizione che se ne facesse una casa per monache. Sono rimaste più di un secolo, fino al 1996, svolgendo un’opera educatrice di grande efficacia al servizio dell’intera comunità cervinarese: insegnavano l’alfabeto e a far di conto, ricamo e disegno, orazioni e buone maniere; si dedicarono inoltre all’assistenza dei minori e all’asilo per i bambini.

 

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